L'aggregazione ha in sé un potenziale di rivoluzione. Vero. Ma – dalle Associazioni dei Padri Divorziati fino ai Movimenti Politici e Apolitici – i motivi di aggregazione sembrano essere la disperazione, il disorientamento, l'urgenza dei bisogni primari…
L'aggregazione sembra l'ultima spiaggia per condividere e possibilmente affrontare – con la forza che dà l'unione – le difficoltà contingenti, le più impellenti. E spesso funziona. Ma poi?
Quella di oggi è la logica del branco: è la vitalità "animale" di ciascuno, l'affermazione di sé per la propria sopravvivenza, a portare all'aggregazione, al branco, appunto, e alla ricerca di un capo-branco che sappia (o sembri sapere) cosa fare. Ma poi?
Se l'azione di cambiamento operata dal branco non incide sulla persona, se non la trasforma dall'interno, nel suo modo di pensare e quindi di vivere, non sarà vero cambiamento. Non sarà vera rivoluzione. Saremo sempre sulla stessa giostra.
La vera rivoluzione sarà quando la condivisione non avrà alla base bisogni primari e di sopravvivenza: sarà quando le persone metteranno insieme talenti, complementarietà, risorse e impegno per creare bellezza e positività, per espandere le coscienze. L'obiettivo non sarà sopravvivere, ma vivere.
L'augurio è che questa fase che stiamo vivendo – da branco – sia solo un inizio: che non sia un altro giro di giostra.
Ciascuno di noi è unico: sono le sue qualità e i suoi talenti a renderlo tale. Quindi, ciascuno di noi vale 1. Né più né meno di tutti gli altri. Ci sembra giusto. O forse no? Facciamo la prova del nove, con la nostra più grande Maestra, la Natura.
Nell'ecosistema del mio giardino il contributo attivo dell'Ape non è comparabile a quello del Ragno, ma entrambi sono funzionali al suo equilibrio dinamico, e pertanto sono entrambi indispensabili.
Dunque, in un immaginario parlamento giardiniero, quando si tratta di fare delle scelte per il bene dell'ecosistema, sia l’Ape che il Ragno dovrebbero avere lo stesso peso, dovrebbero contare 1… Ma se il punto all'ordine del giorno di oggi è l'impollinazione? L’Ape e il Ragno contano ancora 1?
Io dico di no. Anzi, dico che dipende tutto dal Ragno, da come ha organizzato la sua esistenza: se si è dedicato anima e corpo alla sua funzione di Ragno (nella quale è massimo esperto e acuto conoscitore) o se si è ritagliato spazi di esplorazione del lavoro delle Api…
Solo se il Ragno avrà esplorato il lavoro delle Api, il suo voto varrà davvero 1, perché sarà dato con consapevolezza, e sarà basato sulla conoscenza, l'analisi, la valutazione critica; non sarà un voto superficiale, non si fermerà agli slogan da bar, non sarà un voto "di pancia".
Cosa ci stanno dicendo le Api e i Ragni? Che la democrazia richiede conoscenza, impegno e pensiero critico. O diventerà dittatura dell'ignoranza.
Morale: mettiamoci a studiare!
C'erano una volta tre viaggiatori. Cammina, cammina, arrivarono ad un muro, un muro così lungo e così alto che non se ne vedevano i confini. Si fermarono a pensare. Pensarono a lungo.
Il primo viaggiatore disse: "Il mio viaggio finisce qui. È destino." E tornò indietro.
Il secondo viaggiatore disse: "Salterò finché non riuscirò a scavalcare il muro". E cominciò a saltare e cadere, saltare e cadere, saltare e cadere.
Il terzo viaggiatore disse: "Cambierò strada." E riprese il viaggio.
Il più delle volte quella che chiamiamo "sfortuna" è in realtà un'opportunità. Ma siamo troppo miopi per riconoscerla in questa veste. Ci arrendiamo come il primo viaggiatore o ci accaniamo con ostinazione, come il secondo. Invece, dovremmo prendere esempio dal terzo: scegliere una strada diversa, riprendere il viaggio.
Ogni tappa della nostra vita è significativa per la nostra evoluzione. Anche le tappe più dolorose, quelle che archiviamo come fallimenti, cantonate, sconfitte, e che cerchiamo di dimenticare. In realtà sono proprio le scottature peggiori quelle che alimentano il fuoco del nostro cambiamento (evolutivo), quelle che attivano le nostre risorse interiori, rimettono in discussione tutto e trovano soluzioni nuove.
"Destino" è un termine improprio: siamo dotati di libero arbitrio, non dimentichiamolo. Preferisco parlare di "destinazione" e ricordare, prima di tutto a me stesso, che tutte le tappe della nostra vita, sfortune comprese, ci portano verso la nostra vera destinazione. Quale?
Il paradosso. Viviamo in una situazione di totale fragilità, di precarietà a tutti i livelli: lavorativo, sociale, economico, ambientale, personale. Logica vorrebbe che, in tempi grami come i nostri, si facesse rete, si agisse insieme per la resistenza e il cambiamento. Perché non succede?
Ecco, io credo che un motivo sia questo: si è perso il senso del limite.
Siamo tutti convinti, sotto sotto, più o meno consapevolmente, di essere pienamente autosufficienti. Operiamo su concezioni di tempo infinito e di spazio smisurato. Ci crogioliamo in questa idea di infinitudine e illimitatezza. Siamo in corsa perenne, in eterna competizione, persino con noi stessi.
Fin da piccoli: condannati a essere supereroi. Risultato: lo stallo. Individualismo sfrenato, megalomania, sindrome di onnipotenza (o all'opposto, propensione al martirio), dipendenza da psicofarmaci, isolamento.
Recuperare il senso del proprio limite e dei propri limiti comporta: 1) diventare consapevoli di ciò che si è; 2) diventare coscienti della nostra reciproca interdipendenza; 3) riconoscere il valore degli altri; 4) recuperare l'idea del fare insieme; 5) individuare obiettivi comuni, quindi finalizzati al bene comune; 6) assumersi le proprie responsabilità.
C'è da rimboccarsi le maniche. Ma il cambiamento è inevitabile.
A incontra B.
Cosa succede? A racconta di sé, di quello che ha fatto, dei successi che ha ottenuto. B... pure.
Osserviamo meglio. In realtà, non c'è nessun "incontro" in atto. Ciascuno sta facendo promozione di sé. Non cerca una relazione con l'altro, un possibile terreno da percorrere insieme, unendo forze e competenze e intelligenze.
Ciascuno è convinto di bastare a se stesso. Di non aver bisogno di nessun ponte. Al massimo gli manca uno sponsor.
Attenzione! Ora B sta facendo delle domande. Che sia un'apertura verso la relazione?
Osserviamo meglio. In realtà, B sta chiedendo delle procedure, non dell'esperienza: gli interessa la meccanica delle cose, non la dinamica. Il come, non il perché. Dietro le domande, c'è un potenziale tornaconto personale, l'idea che applicando la stessa procedura, anche B otterrà il medesimo risultato, anzi un risultato migliore. A prescindere dal pensiero, dalla ricerca, dal percorso.
Non si è creato nessun ponte. Per creare un ponte, A e B, le due sponde, si dovrebbero riconoscere nella reciproca diversità, cogliere che c'è un gap da colmare, non solo tra A e B, ma anche in A, anche in B. Se le due sponde si credono uguali, che senso ha costruire un ponte? A e B dovrebbero avere l'umiltà di riconoscere non solo i propri talenti, ma anche i propri limiti, dovrebbero risvegliare la curiosità di voler conoscere e comprendere, il piacere di mettersi in gioco.
A livello sociale, qualcosa sta succedendo, a macchia di leopardo, con l'andamento malcerto derivato dalla disabitudine: petizioni, movimenti spontanei, indignados, transizione, a volte vere e proprie rivoluzioni. Si comincia a riconoscere un principio di fondo: che ogni mia azione ha senso, ha valore, ha possibilità di crescere, se e solo se è un bene per tutti.
Intendo, per tutto il creato.
Da Darwin in poi, non è cambiato proprio niente?
Era lui che parlava di "selezione naturale", nel lontano 1859, e l'accostava a concetti illuminanti quali "lotta per l'esistenza", "competizione", "vantaggio adattivo" e (udite-udite) "fitness" (che allora però era un concetto serio).
Niente. Sguazziamo ancora nella logica primitiva e bestiale della selezione basata sulla forza, la supremazia sull'altro, l'annientamento dell'altro, visto come ostacolo alla nostra affermazione. Gli esempi sono innumerevoli: dalla suprema ottusità del Grande Fratello televisivo fino al cieco radicalismo delle guerre per fede (religiosa o politica che sia).
Come bestie selvatiche (ma senza più traccia della loro coerenza e dignità), marchiamo il nostro territorio e lo difendiamo con le unghie sguainate (a volte anche laccate): piccoli e patetici supereroi "de noantri".
Ben altra è la selezione che oggi dovrebbe mettere in atto l'essere umano, o almeno quella fetta di umanità che si è accorta (o spera) di aver fatto un piccolo passo avanti rispetto al 1859. È – chiamiamola così – una selezione evolutiva. Declinabile in tre fondamentali forme:
1. Tempo - 2. Relazione - 3. Cose.
La selezione evolutiva del tempo. Saperlo usare e dosare; saperlo vivere pienamente; non esserne succubi; liberare il tempo. Scegliere per cosa / per chi non si vuole più avere tempo. Dobbiamo vivere il tempo per non perdere tempo.
La selezione evolutiva della relazione. Avere il coraggio di valutare la qualità dei rapporti con le persone e cominciare a sfrondare; avere la forza di rinunciare al consenso, alla coperta calda degli affetti anche se solo di facciata. Dobbiamo vivere il silenzio per comunicare.
La selezione evolutiva delle cose. Capire il valore vero delle cose, sceglierle in relazione alla loro capacità di dare qualità alla nostra vita interiore, impulso alla crescita autentica. Togliere le zavorre. Uscire dalle tenaglie del consumismo e delle mode. Dobbiamo vivere il necessario per gustare le cose.
Tre declinazioni, una più difficile dell'altra (forse).
Perché non dipendono più dalla "natura delle cose", bensì dall'essenza più profonda dell'essere umano. Non dall'esterno, dalle circostanze, ma da noi, come individui. Fanno parte della nostra responsabilità individuale, richiedono consapevolezza, coraggio, determinazione, impegno, coerenza. Capacità di scelta. Capacità di libertà.
Interlocutore tipo: Via email. "Ciao caro, tutto sotto controllo. Entro fine settimana ti mando il progetto."
3 settimane dopo. "Pronto? Quale progetto? No, ti sbagli. Io non ti ho scritto niente del genere. Ma vediamoci, perché l'idea era buona e ho i contatti giusti. Veniamo noi da te prima di pasqua. Sento gli altri e poi ti dico."
2 mesi dopo pasqua ancora non s'è visto (o sentito) nessuno. Ci si incontra, per caso, a casa di amici. Si parla – rigorosamente – d'altro.
Ancora qualche settimana di oblio poi, d'improvviso, la telefonata. "Ciao. Ho fissato l'appuntamento per dopodomani. Hai già pronto il ppt? Come 'di cosa'? Il progetto, no? Come 'non hai mai ricevuto il progetto'? Ah. [3 secondi di silenzio] ... ... ... Beh, allora facciamo che te lo mando. Ce la fai per domani sera?"
No. ...
È preoccupante lo stato di salute della Parola Data. Non so se sia un male solo italiano, di sicuro è un male contagioso, quasi epidemico.
La Parola Data contiene: una assunzione di responsabilità, un comportamento coerente con l'impegno preso, una comunicazione chiara, un rispetto dei tempi stabiliti, un rispetto degli altri interlocutori, un impegno a comunicare tempestivamente, se un mutare di condizioni impedisce di mantenere la Parola Data.
Oggi la Parola Data è un contenitore vuoto.
È vero, è capitato a tutti di non poter rispettare gli impegni presi, di accumulare un ritardo vergognoso, di accorgersi di aver sbagliato a valutare. Ma bisogna dirlo. E in anticipo, se possibile. E scusandosi, se possibile.
Perché la nostra Parola-Data-Ma-Non-Mantenuta ha delle conseguenze sugli altri. Sia che ci aspettino per andare al cinema, sia che abbiano investito tempo e denaro in un progetto comune. Il danno c'è, sempre e comunque, ed è una corrosione – spesso irreparabile – della stima reciproca, della fiducia, della voglia di fare insieme.
Proporre l'arte come alternativa al "male di vivere" presente, anzi come forza evolutiva e portatrice di benessere, sembra quasi un'offesa a chi ha difficoltà ad arrivare a fine mese. In realtà anche noi abbiamo mutui da pagare e lavori da inventare e macchine quasi da rottamare e vite complicate come quelle di tutti. Non abbiamo protettori e non viviamo nemmeno con la testa per aria. Ci sembra di essere persone ragionevoli e pensanti e senza particolari problemi di salute mentale. E allora perché l'arte? Seguitemi:
1. Una breve premessa
È insito nella natura dell'uomo cercare. Esplorare, non accontentarsi, volere di più, rischiare, agire. È questa "scintilla" che lo fa sentire vivo, profondamente umano. È questo che lo distingue dalle altre specie animali. Ne abbiamo esempi fulgidi e nefasti nello sport, nell'economia, nella vita produttiva, nella ricerca scientifica, ovunque. Fin qui, credo che possiamo essere tutti d'accordo.
2. L'ipotesi ideale
Ora proviamo a fare un esercizio di visualizzazione. Immaginiamo di vivere tutti in un mondo perfetto. Non guardatemi così. È difficile, lo so, ma almeno con la fantasia possiamo ancora viaggiare senza limiti! Vi do una mano. Nell'ordine: buona salute, casa di proprietà con giardino, buon conto in banca. Vita sentimentale ricca e profonda e famiglia felice, con cane. Lavoro gratificante e ben pagato. Governi onesti e media intelligenti. Benessere diffuso, niente criminalità organizzata o disorganizzata. Niente guerre, niente terrorismi, niente fondamentalismi. Niente effetto serra, niente piogge acide, niente petrolio nei mari o acque radioattive. Abbiamo tutto. E siamo liberi.
3. Gli sviluppi
In questo mondo così perfetto da non essere ulteriormente perfettibile, credete che la "scintilla" della ricerca si spegnerebbe? Credete che, soddisfatti tutti i bisogni materiali e non, l'essere umano si accomoderebbe sulla sua poltrona a contemplare l'orizzonte? Io no. Io sono certo che l'essere umano continuerebbe a sentire quella certa irrequietudine, quell'insoddisfazione senza nome, quell'indistinta voglia di nuovo, di rischio, di adrenalina...
Sono certo che farebbe di tutto pur di uscire dalla noia della perfezione. Forse giocherebbe al casinò, o proverebbe a "viaggiare-a-fari-spenti-nella-notte", o cercherebbe lo "sballo" nelle variegate modalità offerte dalla civiltà moderna. O magari si cercherebbe un avversario, un concorrente con cui competere. Un nemico.
4. La domanda
Ci siamo capiti. Abbiamo già visto questa storia sin troppe volte. Se va a finire così anche nella nostra utopica società perfetta, cosa potrà essere oggi, in quest'epoca marcescente e senza direzione?
La domanda che ci siamo posti è questa: Perché questa "scintilla" dell'uomo, invece di innescare un volano di evoluzione, si inceppa e diventa competizione, violenza, sopruso? Perché brucia invece di illuminare?
La risposta che ci siamo dati è questa: È perché questa "scintilla" noi l'alimentiamo con l'obiettivo del riconoscimento esterno, la fama, l'interesse economico esclusivo, la visibilità, il potere. Tutte cose che non dipendono da noi, ma dagli altri. Tutte cose che non ci rendono liberi, ma ci avviluppano in una rete vischiosa. È perché le soluzioni le cerchiamo fuori di noi, non dentro di noi, e le responsabilità pure. Tutte le nostre meravigliose "scintille", lanciate all'esterno, creano un movimento centrifugo e vorticoso che ci lascia un po' storditi, ma mai soddisfatti. È una fuga da noi stessi, ancora una volta.
5. La risposta alternativa
È nell'arte, torniamo a dire. L'arte può essere la nostra alternativa al movimento centrifugo, il nostro volano evolutivo per il benessere individuale e sociale. Pensateci. Pensate all'incanto che vivete davanti alla Venere di Botticelli o alla Nona Sinfonia di Beethoven o davanti all'arte della Natura… Pensate a quanto vi sentite rigenerati, ispirati, grati.
Se questo è l'effetto dell'arte altrui su di voi, quale potrà essere l'effetto della vostra arte su di voi? E come potrà espandersi a chi vi sta vicino, giorno dopo giorno? Coltivare i propri talenti soddisfa bisogni fondamentali dell'essere umano: crea appagamento, equilibrio, benessere, adrenalina, gioia di vivere, energia positiva. E innesca un circolo virtuoso: l'arte è una "droga naturale", senza effetti collaterali. Non "oppio dei popoli", ma alimento, strumento di pienezza e comprensione profonda.
Non avete arte? Vi sbagliate. E non vi conoscete abbastanza. L'arte è prerogativa di tutti, nessuno escluso. È la nostra vera scintilla divina. L'arte di alcuni è grande e molteplice nelle sue forme ed essi ne mettono i frutti a disposizione di tutti, oltre i limiti del loro tempo e del loro spazio: sono i grandi artisti. Ma ciascuno di noi ne possiede quanto basta per sé.
Vivere nell'arte è un cambiamento di prospettiva radicale che può trasformare la società. A partire da ciascuno di noi. Ecco perché il Manifesto L'Arte per l'Evoluzione – per quanto utopico – ha motivo d'essere e ha un senso.
Rivoluzionario.
È indubbio che il cambiamento vero avviene se e quando le persone, i singoli individui, cambiano ed evolvono. Cosa serve per cambiare? Conoscenza e consapevolezza, un progetto con un obiettivo, un piano d'azione, l'impegno ad attuarlo fino a raggiungere l'obiettivo. E poi avanti, oltre.
Applichiamo questo processo evolutivo all'"individuo sociale". Come innescare il volano del cambiamento nella società per creare comunità consapevoli? Una proposta.
Per una nuova comunità
1. Mettiamoci insieme per comprendere. Costituiamo gruppi locali di studio su tematiche e problemi specifici, per acquisire conoscenze, consapevolezza e strumenti di intervento.
2. Progettiamo. Trasformiamo la conoscenza acquisita in progetti per il bene del territorio; ipotizziamo soluzioni nuove, non preconfezionate.
3. Passiamo all'azione. Attuiamo i progetti e verifichiamone gli effetti. Miglioriamo.
4. Condividiamo e moltiplichiamo. Mettiamo in "rete" l'esperienza acquisita e diventiamo punti di competenza per il territorio.
Ci sono qua e là già molte iniziative di questo tipo che nel loro piccolo agiscono il cambiamento, ma sono sparse sul territorio, isolate. Immaginiamo invece che questo modus operandi diventi "sistema" e "rete": un modus vivendi. Quali sono gli effetti?
Nascono comunità consapevoli
Questo modello portato a sistema diventa "rete intelligente territoriale", responsabile e consapevole, attiva su base progettuale: diventa "comunità". Progetti e iniziative portati avanti dai gruppi locali:
- hanno un impatto diretto sul territorio e sulla comunità: per il bene della comunità;
- creano resilienza; creano consapevolezza e partecipazione, innescano il cambiamento;
- a un livello più profondo creano un vero "sentimento" di coesione sociale.
Da ogni esperienza locale si innesca un processo di espansione in cerchi sempre più ampi. Ed ecco che questi "organismi", vitali per il territorio, possono diventare centri propulsivi di un profondo cambiamento sociale e costituire le basi delle nuove comunità consapevoli.
Istituzioni al servizio della Comunità
Sul lungo periodo la nascita di comunità consapevoli organizzate in gruppi progettuali potrà persino rimodellare il ruolo delle istituzioni: non più enti lontani dalla comunità, "decisionisti" e spesso ostili, a cui demandiamo in toto la soluzione dei nostri problemi, ma espressioni proattive delle istanze della nuova Comunità.
La direzione possibile
Creiamo ponti tra le realtà già esistenti, in modo da mettere in circolo idee, progetti, buone prassi: le buone idee vanno copiate!
Attiviamoci per creare nuovi gruppi locali. Ma attenzione: non è volontariato né beneficenza. È un dovere civico a cui tutti siamo chiamati: è impegno attivo per il cambiamento.
In molti lo stiamo già facendo.
Avevamo in mente le foto di Berlino distrutta nel 1945 e la barriera del Muro, invalicabile fino al 1989. Sono passati poco più di vent'anni e oggi Berlino è una città in pieno fermento: complessa, ancora alle prese con un passato difficile da elaborare, ma cantiere aperto, che investe enormi risorse non solo nella ricostruzione e nelle infrastrutture, ma anche nella cultura e nell'arte.
L'investimento nella cultura ha radici antiche. Leggiamo per esempio che la prestigiosa Humboldt Universität (che ha visto passare nelle sue aule Marx, Engels, Fichte, Einstein, Planck e molti altri nomi illustri) nasce in un periodo di gravi difficoltà economiche e di instabilità. Ma Federico II non esita a finanziare, invece che l'esercito o l'industria, un progetto educativo fondato sulla cultura classica, la filosofia, la ricerca scientifica.
E in Italia?
Durante il Rinascimento, anche in Italia arte cultura e scienza erano il motore trainante: i consiglieri di cui si circondavano i Principi comprendevano artisti, scienziati e pensatori.
Oggi, invece, abbiamo un punto di vista meramente tecnico ed economico, promotore di una crescita "numerica" e superficiale, focalizzato sui consumi e sui mercati, sulla reiterazione di modelli vecchi e inadeguati. Ci aggrappiamo a un punto di vista apparentemente necessario nell'urgenza della crisi, ma fortemente limitato, perché incapace di innescare un cambiamento profondo, un cambiamento di prospettiva. E dunque fallimentare.
Come ci dimostra la Berlino di Federico II e di oggi, una chiave fondamentale per uscire dalle difficoltà è mettere al centro la Cultura e l'Arte: sono loro a diventare risposta. Noi invece, nel Bel Paese, abbiamo ogni giorno sotto agli occhi il risultato della separazione dell'Arte dalla Vita.
Oggi più che mai ci manca ciò che l'Arte ci può dare sul piano concreto, sul piano dell'azione: la ricerca e l'innovazione, la capacità progettuale (analisi-studio-strumenti-metodo), la passione e la dedizione. La Visione.
Mettere l'arte al centro non vuol dire – come succede oggi in Italia (e con scarsi risultati) – conservazione dei monumenti e delle antiche glorie. I monumenti e l'arte non possono essere solo memoria, ma vanno inserito nel tessuto sociale di oggi e di domani, devono diventare vivi, parte della vita quotidiana di ciascuno, non solo fonte di orgoglio nazionale, ma alimento della vita economica, culturale, sociale.
L'arte è "attrattore" per chiunque cerchi il cambiamento.
L'arte è il punto più alto della prospettiva:
apre la nostra visione e ci dà la lungimiranza che oggi ci manca.
Non illudiamoci: non basta una nuova economia!
Davvero questa è l'era dell'immagine?
Nell'era dell'immagine le immagini dovrebbero essere straordinariamente ricche! Dovrebbero parlare a tutti i sensi (e i sensi risponderebbero); proporre stratificazioni di significati, prefigurare possibili futuri o rievocare saperi. E poi giocare sull'allusione, il valore simbolico, l'associazione di idee, il non detto. E anche (perché no?) sul non visto... - Comunicare prima della parola, con la forza esplosiva di una bomba. -
Ebbene, dobbiamo ammetterlo: nella nostra frastornata realtà difficilmente riconosciamo tanta ricchezza. Dobbiamo ammetterlo e con vergogna. Questa è l'era delle figurine.
Le figurine dei calciatori, proprio quelle che si incollano sugli album. Nelle figurine dei calciatori, l'identità coincide esattamente (ed esclusivamente) con una faccia e con i colori di una maglia. Facce che a breve distanza - di tempo o di spazio - diventano tutte stranamente simili.
In-di-stin-gui-bi-li.
Le figurine dei calciatori non sono altro che semplificazioni di una realtà complessa. Sono la parte per il tutto, riduzioni di senso per il pronto uso. Pura facciata (o faccia che sia). E dietro? E sotto? E intorno? E prima? Dov'è finito il "tutto"? Non c'è più niente di visibile, né di percepibile. È innegabile che queste immagini riproducano una realtà. Ma quanto parziale! Quanto riduttiva! Quanto appiattita! Definirla bidimensionale è fin troppo.
Che cosa può essere successo?
Eccesso di esposizione? Effetto assuefazione? Atrofizzazione degli organi di senso? Apatia cerebrale? Quali che siano le cause, l'effetto sembra essere questo:
È come se avessimo perso la visione di insieme, o la capacità di cogliere la visione d'insieme. Che peccato. Ma allo stesso tempo si è perso anche il gusto del particolare - la degustazione; e il gusto del tuffo nel profondo - lo scavo; il gusto della scoperta - la ricerca. Che peccato.
Quello che vedo è la realtà. Anzi: la realtà è quello che colgo a colpo d'occhio. E già volto pagina. Tempo di riflessione: zero. Non solo abbiamo smesso di leggere le parole: abbiamo smesso anche di leggere le figure. "Ceci n'est pas une pipe" diceva il grande Magritte a commento del suo celebre dipinto di una pipa. E si schiudevano d'incanto interi mondi filosofici. Invece, caro René, nel nostro qui e ora, quella pipa dipinta è una pipa. Che peccato.
Nel realismo sovrabbondante e gridato delle nostre quotidiane abbuffate di immagini, forse si può leggere un tentativo di compensazione mediatica all'atteggiamento compulsivo di un pubblico bulimico e incontinente. I pantagruelici eccessi (in molti sensi) dei baccanali di immagini cui siamo ormai avvezzi potrebbero essere scambiati per iper-realismo, ma in realtà sono l'inevitabile reazione mediatica a una drammatica condizione patologica di ipo-realismo cronico di noi commensali.
Effetti collaterali.
In questi lauti banchetti, le pietanze e gli ingredienti sono sempre gli stessi. Precotti, imbustati e sigillati, pronti subito: un cucchiaio d'olio e 5 minuti a fuoco vivo. Tutto deve essere rassicurante, facile. Predigerito. Guai ad avere un dubbio. Il dubbio è destabilizzante, richiede tempo di elaborazione e di pensiero critico. Non ce l'abbiamo. Che peccato.
Fuor di metafora, chi legge l'immagine applica un filtro, uno schema di interpretazione già prefissato: l'operazione mentale che compie è il semplice riconoscimento passivo di un'immagine già presente nella sua banca dati. Qualunque cosa si distacchi dal modello comune non viene riconosciuta e di conseguenza, nella maggior parte dei casi, viene rifiutata. Si passa subito ad altro, tanto, c'è solo l'imbarazzo della scelta.
L'abbondanza del nulla induce alla pigrizia. Che peccato.
Troppo spesso l'arte oggi è elitaria, appannaggio di pochi e incomprensibile ai più.
O al contrario è fenomeno sociale e rito collettivo del tempo libero, destinata a una fruizione distratta e ingorda.
Talvolta l'arte è pura provocazione, o superficiale improvvisazione spacciata per "arte".
In altri casi è ammiccante ai gusti del pubblico e del mercato, ripetitiva nei generi e nelle forme, secondo le mode.
Belle forme vuote di pensiero o bel pensiero vuoto di forma.
Non è questo che noi intendiamo per arte.
Vivere la propria arte
L'arte è in ciascuno di noi ed è una dimensione intima e profonda di ricerca interiore e di conoscenza di sé. Quest'arte dell'intimo è quella che più profondamente permea la nostra vita quotidiana: non passerà alla storia, non ci darà la fama, ma è necessaria e fondamentale per il nostro equilibrio e per la nostra evoluzione.
Ciascuno di noi ha dei talenti: ce lo dimostrano i bambini. Attraverso la scoperta e la valorizzazione dei nostri talenti, acquisiamo un potente strumento di conoscenza di noi stessi, di espressione libera e profonda e di evoluzione. Per fare questo non è necessario essere artisti immortali, ma solo essere e conoscere se stessi.
L'arte dell'intimo è anche altro: è un modo di essere e di vivere. È un atteggiamento di ascolto e di godimento della bellezza della Natura. È la piena espressione di sé, senza timori. È la ricerca di equilibrio, in sé, nella famiglia, al lavoro, nel sociale; è vivere la propria dimensione di padri, madri, figli con pienezza e amorevolezza. È continua ricerca, per conoscere ciò che siamo in questa vita. È l'arte del vivere. Nel quotidiano. Quest'arte dell’intimo è una dimensione naturale dell'uomo: viverla pienamente è un dovere che abbiamo verso noi stessi, e un diritto.
L'arte nel vivere quotidiano
L'arte è un modo di vivere, di pensare e di agire. È un alimento, è un bisogno primario, come il cibo, l'acqua, l'aria. Non si può vivere senza arte: si sopravvive.
Vivere per riprodursi, mangiare, bere, dormire, non è sufficiente a giustificare una vita. Queste sono semplici funzioni biologiche che ci legano a una dimensione primordiale e "cavernicola" dell'esistere, dove vale ancora la legge del più forte (o del più furbo). Sono ripetizione, non evoluzione.
L'arte è la ragione per cui l'essere umano è un essere umano, è la ragione più profonda dell'esistere. Lo ribadiamo: non c’è essere umano privo di capacità artistiche, come insegnano i bambini. Noi non siamo uomini, se non ci occupiamo della nostra arte. L'arte, se riconosciuta come bisogno primario, entra nel nostro quotidiano e diventa pervasiva della nostra vita. L'arte crea appagamento e positività, benessere e gioia di vivere.
Non è ripetizione, ma evoluzione. Vivere l'arte nel quotidiano ha un impatto straordinario anche sulla società: la famiglia, la comunità, il territorio. L'arte è una forza attiva e propositiva, è una visione sociale del vivere in armonia con se stessi, gli altri e la Natura.
È sotto gli occhi di tutti l'implosione delle logiche tradizionali dell'individuo, della società, dell'economia. Sono sempre più evidenti nell'uomo lo smarrimento, la mancanza di prospettive e di valori di riferimento, la volontà di fuga. Il percorso di sviluppo sociale compiuto finora, pur nella bontà delle premesse e delle intenzioni, rivela falle irreparabili.
Siamo al capolinea di un modo di essere che, dal 1600 in poi, è diventato sempre più specialistico e parziale, certamente utile per il progresso, ma sempre più miope e più lontano da quel carattere di globalità rappresentato dall'uomo rinascimentale: uomo di scienza, artigiano, artista, uomo politico, poeta. L'uomo-microcosmo incarnato da Leonardo, da Michelangelo.
Siamo al capolinea del "glorioso" percorso della rivoluzione industriale, iniziata alla fine del 1700. Ora sono evidenti tutti i limiti di una società fondata sui principi del profitto, del consumismo, del mercato, del potere.
Siamo al capolinea di un percorso verso la democrazia che in Italia ha avuto come ultima tappa significativa gli Anni Settanta, con le rivolte per la conquista dei diritti individuali e sociali. Da allora, quarant'anni di decadenza (spesso mascherati da illusori successi economici) hanno portato a un pesante incremento del debito statale (a carico della collettività) e a un palese impoverimento dei valori individuali e sociali; hanno portato nella società una sorta di sonnambulismo e di sopore, un atteggiamento di indifferenza, mancanza di curiosità, pigrizia mentale.
Come superare questo triplice capolinea?
È necessario recuperare l'identità unitaria dell'uomo "visionario", un uomo completo, artigiano, scienziato, artista, pensatore. Dobbiamo risvegliare nell'uomo la creatività, (che è alla base di ogni forma di vita), la curiosità, la meraviglia, la voglia di credere nelle proprie passioni e nei propri sogni, la capacità di interrogarsi, di pensare che si possono cambiare le cose.
È necessario superare una visione industriale ottocentesca della società e dell'economia: trovare nuovi strumenti di interpretazione e di relazione con la realtà, nuove modalità d'azione e di pensiero, per creare forme di sviluppo eque e sostenibili guidate da un sistema di valori forti.
È necessario fondare la società su valori universali (giustizia, solidarietà, equità, ecologia, etc.), valori da perseguire nel quotidiano e da trasmettere. Con responsabilità e con impegno attivo.
Dobbiamo recuperare la nostra umanità.